Ricorso ex art. 127 costituzione per il Presidente del Consiglio
del ministri, rappresentato e  difeso  con  il  patrocinio  ex  lege,
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,   (C.F.   80224030587,   fax
06-96514000 e PEC ags.rm@mailcertavvocaturastato.it),  presso  i  cui
uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12 domicilia. 
    Nei confronti della Regione Abruzzo, in  persona  del  Presidente
pro tempore, nella sua sede legale in via Leonardo da Vinci  n.  6  -
Palazzo  Silone  67100  -  L'Aquila  (posta  elettronica  certificata
presidenza@pec.regione.abruzzo.it) 
    Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge
regionale Abruzzo n. 29 del 13 ottobre 2020, pubblicata sul B.U.R. n.
160 del 16 ottobre 2020, che reca «Modifiche alla legge regionale  12
aprile  1983,  n.   18   (Norme   per   la   conservazione,   tutela,
trasformazione del territorio della Regione Abruzzo), misure  urgenti
e temporanee di semplificazione e ulteriori disposizioni  in  materia
urbanistica ed edilizia», relativamente alle  disposizioni  contenute
negli articoli 5, 7, 10, 18, 19, 23 e 25. 
    La legge regionale Abruzzo n. 29 del 13 ottobre 2020,  pubblicata
sul B.U.R. n. 160 del 16 ottobre 2020, che reca «Modifiche alla legge
regionale 12 aprile 1983, n. 18 (Norme per la conservazione,  tutela,
trasformazione del territorio della Regione Abruzzo), misure  urgenti
e temporanee di semplificazione e ulteriori disposizioni  in  materia
urbanistica  ed   edilizia»,   e   censurabile   relativamente   alle
disposizioni contenute negli articoli 5, 7, 10, 18, 19, 23 e 25, come
si intende dimostrare con la illustrazione dei seguenti 
 
                               Motivi 
 
    Le disposizioni della  legge  regionale  Abruzzo  n.  29  del  13
ottobre 2020, contenute negli articoli 5, 7, 10,  18,  19,  23  e  25
violano disposizioni statali che  costituiscono  norme  interposte  e
risultano cosi invasive della potesta'  legislativa  esclusiva  dello
Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio di  cui
all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  s),   della   Costituzione,
abbassando altresi' il livello della tutela  dei  predetti  interessi
determinando  la  violazione  dell'art.  9  della  Costituzione.   Le
disposizioni regionali censurate inoltre  contrastano  con  norme  di
principio in materia di  Governo  del  territorio  e  quindi  violano
l'art. 117, terzo comma della Costituzione. 
    In particolare: 
        1) La disposizione contenuta nell'art. 5, comma  3,  modifica
l'art.  20  della  legge  regionale  n.  18  del  1983,  riformulando
l'attuale comma 8-bis, con riferimento ai  piani  attuativi  conformi
allo strumento urbanistico  generale  vigente  (ossia  con  modifiche
entro i limiti del comma 8 e che non alterino i carichi  urbanistici)
stabilendo  che:  «I  Piani   attuativi   conformi   allo   strumento
urbanistico generale vigente sono approvati dalla Giunta comunale, ai
sensi dell'art. 5, comma 13, lettera b), del decreto-legge 13  maggio
2011, n.  70  (Semestre  europeo -  Prime  disposizioni  urgenti  per
l'economia), convertito, con modificazioni,  dalla  legge  12  luglio
2011, n. 106». 
    La disposizione regionale e' censurabile considerato che la norma
nazionale richiamata - ossia l'art. 4,  comma  13,  lettera  b),  del
decreto-legge n. 70 del 2011 -  si  limita  a  stabilire  che  «Nelle
Regioni a statuto ordinario, (...) decorso  il  termine  di  sessanta
giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto,  e  sino  all'entrata  in  vigore  della  normativa
regionale, si applicano, altresi', le seguenti disposizioni: (...) b)
i piani attuativi,  come  denominati  dalla  legislazione  regionale,
conformi allo strumento urbanistico generale vigente, sono  approvati
dalla giunta comunale». 
    La predetta previsione statale -  peraltro  destinata  a  operare
solo  in  attesa  di  una  disciplina  regionale  -  e  volta  quindi
unicamente ad attribuire alla Giunta comunale la competenza in ordine
ai piani attuativi conformi al piano urbanistico generale, senza  che
sia dettata alcuna previsione in ordine all'iter  di  formazione  dei
medesimi piani attuativi.  Tale  iter  rimane  soggetto  pertanto  ai
principi fondamentali vigenti, i quali richiedono la distinzione  tra
la  fase  di  adozione  e  quella  di  approvazione,  allo  scopo  di
consentire la fase indefettibile di partecipazione degli interessati. 
    Non sembra infatti potersi dubitare  del  fatto  che  il  termine
«approvazione» sia utilizzato nella disposizione  statale  richiamata
per riferirsi genericamente al procedimento che si dipana dalla  fase
di  iniziativa  fino  alla  deliberazione  finale   dello   strumento
attuativo. In altri  termini,  il  legislatore  nazionale  ha  inteso
soltanto escludere che l'approvazione dei piani attuativi conformi  a
quelli generali possa  essere  demandata  dalla  legge  regionale  al
Consiglio comunale o a un ente sovraordinato rispetto al  Comune,  ma
non ha inciso sulla disciplina del procedimento di pianificazione. 
    La modifica apportata alla precedente  formulazione  della  legge
regionale determina l'eliminazione del riferimento espresso alle fasi
di adozione e di  controdeduzione  alle  osservazioni  relative  allo
strumento attuativo adottato. La novella appare stabilire che i piani
attuativi conformi allo strumento generale non  siano  soggetti  alle
distinte fasi di adozione e approvazione, ma vengano  deliberati  una
sola volta dalla Giunta regionale, con totale elisione delle fasi  di
pubblicazione del piano adottato, di presentazione delle osservazioni
da  parte  degli  interessati  e  di  controdeduzione  alle  medesime
osservazioni.  Viene  cosi'  soppressa  anche  la   possibilita'   di
partecipazione al procedimento da  parte  delle  Amministrazioni  che
hanno il compito di  curare  interessi  pubblici  diversi  da  quelli
rimessi alla tutela dei Comuni. La norma regionale non lascia spazio,
per la  preventiva  sottoposizione  del  piano  alla  Soprintendenza,
imposta dall'art. 16, terzo comma, della legge n. 1150 del 1942. 
    Non puo' sostenersi che la norma statale di cui all'art. 5, comma
13, lettera b), del decreto-legge n. 70 del 2011, nell'attribuire  la
competenza della «approvazione» dei  piani  attuativi  conformi  alla
Giunta, contenga anche una semplificazione  procedimentale,  volta  a
snellire l'iter di formazione di tali piani, nel senso di  sopprimere
le  fasi  di  pubblicazione  del  piano,   di   presentazione   delle
osservazioni da parte degli interessati  e  di  controdeduzione  alle
osservazioni medesime, fasi che resterebbero quindi necessarie (solo)
nel caso di piani attuativi non conformi allo  strumento  urbanistico
generale. In proposito il Giudice amministrativo, con la sentenza del
Consiglio di Stato  n.  888  del  2016,  ha  precisato  che  l'organo
competente alla «approvazione» dei piani  ha  anche,  in  virtu'  dei
principi generali, il potere di diniego di  approvazione. Il  Giudice
amministrativo ha evidenziato che «La Giunta puo' approvare il  piano
attuativo quando questo  e'  coerente  con  il  P.R.G.  (o  strumento
equipollente); l'esigenza di modifica di quest'ultimo, implicata  dal
piano attuativo, attiva  la  competenza  del  Consiglio»  e  che  «la
neutralita' del piano attuativo rispetto allo  strumento  generale  e
condizione necessaria e sufficiente a radicare  la  competenza  della
Giunta». 
    La richiamata norma  del  c.d.  decreto  sviluppo  non  introduce
dunque semplificazioni procedimentali ma individua soltanto  l'organo
competente  alla  «approvazione»  di  determinati  piani:  la  citata
pronuncia del Consiglio di Stato chiarisce infatti che «la  normativa
del 2011  ha  disposto  un  trasferimento  di  competenza  e  non  ha
qualitativamente  mutato   la   natura   dell'atto   conclusivo   del
procedimento» e che «nelle disposizioni ricordate ''approvazione'' va
intesa  non  in  senso  positivo,  ma  nel  significato   neutro   di
''deliberazione''». Cio' in considerazione della competenza  generale
stabilita dal TUEL, atteso  che  «A  norma  dell'art.  42,  comma  2,
lettera b), del decreto  legislativo  18  agosto  2000,  n.  267,  il
Consiglio mantiene sempre la competenza generale  in  tema  di  piani
territoriali e urbanistici, competenza che si  riespande  non  appena
vengano meno le ragioni specifiche  (e  cioe'  la  conformita'  della
proposta al P.R.G.) che, per successiva norma di  legge,  ne  abbiano
comportato il trasferimento in capo  alla  Giunta»  (cfr.  ancora  la
sentenza citata). 
    In altri termini, il legislatore  statale  ha  affidato  l'intero
iter dello strumento attuativo - se  conforme  al  piano  urbanistico
generale - alla Giunta comunale,  ma  tale  iter  rimane  immutato  e
soggetto ai principi fondamentali in materia, i quali  richiedono  la
distinzione tra la fase di adozione e quella  di  approvazione,  allo
scopo di consentire la fase  indefettibile  di  partecipazione  degli
interessati. 
    La partecipazione degli interessati e delle altre Amministrazioni
e infatti sempre necessaria, in base ai principi, anche ove il  piano
attuativo  sia  conforme  a  quello  sovraordinato,  atteso  che   le
previsioni del piano urbanistico generale  possono  essere  declinate
concretamente in molteplici modi, che presentano un  diverso  impatto
sul territorio, sulla morfologia dei luoghi e quindi sul paesaggio. 
    La disposizione regionale in  esame,  eliminando  il  riferimento
espresso alle fasi di adozione e di controdeduzione alle osservazioni
relative allo strumento attuativo adottato, con totale elisione delle
fasi di pubblicazione del  piano  adottato,  di  presentazione  delle
osservazioni da parte degli interessati  e  di  controdeduzione  alle
medesime  osservazioni,  risulta  sopprimere   la   possibilita'   di
partecipazione al procedimento sia dei cittadini interessati  che  da
parte delle Amministrazioni che hanno il compito di curare  interessi
pubblici diversi  da  quelli  rimessi  alla  tutela  dei  Comuni,  in
violazione della disciplina statale, che viene anzi presa a  pretesto
per introdurre la modifica normativa. La norma regionale  non  lascia
spazio, inoltre, per la  preventiva  sottoposizione  del  piano  alla
Soprintendenza, imposta dall'art. 16, terzo  comma,  della  legge  n.
1150 del 1942. 
    Sulla base di quanto sopra dedotto,  l'  art.  20,  comma  8-bis,
della legge regionale n. 18 del 1983,  come  novellato  dall'art.  5,
comma 3 della legge regionale in esame, si pone in  contrasto  con  i
principi fondamentali della legislazione statale  concernenti  l'iter
di formazione dei piani - principi vincolanti in materia  di  Governo
del  territorio,  ai  sensi  dell'art.  117,   terzo   comma,   della
Costituzione - nonche' con il predetto art. 16 della  legge  n.  1150
del 1942, dettato dallo Stato nell'esercizio della potesta' esclusiva
in materia di tutela dei  beni  culturali  e  del  paesaggio  di  cui
all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. 
        2) La disposizione contenuta nell'art. 7 modifica  l'art.  23
della legge regionale n. 18 del 1983, sostituendo il comma 3  con  il
seguente: «Il procedimento di formazione dei Piani  di  lottizzazione
di iniziativa privata e quello di cui agli articoli 20 e 21.  Decorsi
trenta giorni dalla presentazione degli  atti  senza  che  il  comune
abbia assunto provvedimenti deliberativi ovvero - avanzato  richieste
di integrazione istruttoria e/o documentale,  i  richiedenti  possono
inoltrare al comune un atto di  diffida,  trasmettendone  copia  alla
Regione, la quale, decorso l'ulteriore periodo di trenta giorni senza
che il comune abbia  deliberato,  provvede  in  via  sostitutiva  nei
trenta giorni successivi a mezzo di  apposito  Commissario  ad  acta,
all'uopo designato.». La disposizione  regionale  dunque,  stabilisce
una significativa compressione dei termini di adozione dei  piani  di
lottizzazione privata, posto che i centoventi giorni  originariamente
previsti passano a venti giorni e che i sessanta giorni previsti  per
la  delibera  in  via  sostitutiva  sono   portati   a   trenta,   in
disallineamento peraltro con i termini previsti dagli articoli  20  e
21 della legge regionale. Tale compressione  dei  termini,  contrasta
con l'esigenza di attenta valutazione connessa alla pianificazione di
intere porzioni di territorio; esigenza ben presente  al  legislatore
statale, il quale - all'art. 28, secondo comma, della legge  n.  1150
del 1942 - ha, tra l'altro, sottoposto i piani  di  lottizzazione  al
previo   parere   della   Soprintendenza,   indipendentemente   dalla
circostanza che siano  o  meno  interessate  porzioni  di  territorio
sottoposte a tutela, non distinguendo in alcun modo se  lo  strumento
sia conforme o meno alla pianificazione vigente. 
    Anche nei casi in cui  siano  introdotte  riduzioni  dei  termini
procedimentali, pertanto, deve essere assicurato lo svolgimento delle
funzioni di tutela dei beni culturali e del paesaggio attribuite allo
Stato, nei termini previsti dalla normativa statale,  che  stabilisce
un  termine  inderogabile  di   novanta   giorni   per   rendere   le
determinazioni di competenza, ai sensi  dell'art.  14-bis,  comma  2,
lettera c), e art. 17-bis, comma 3, della legge n. 241 del  1990.  La
previsione regionale, nello stabilire che il comune debba  deliberare
i piani di lottizzazione  entro  il  termine  irragionevole  di  soli
trenta giorni, si pone, pertanto, in contrasto con l'art. 28, secondo
comma, della legge n. 1150 del 1942 e con gli articoli 14-bis,  comma
2, lettera c), e 17-bis, comma 3, della legge n.  241  del  1990,  in
quanto preclude la sottoposizione del  piano  di  lottizzazione  alla
Soprintendenza. 
    Risulta  pertanto,  violato  l'art.  117,  terzo   comma,   della
Costituzione, atteso che la previsione della  legge  urbanistica  che
impone la sottoposizione del piano alla Soprintendenza costituisce un
principio fondamentale in materia Governo del  territorio,  attenendo
al  nucleo  fondamentale  delle  regole  tipizzate  dal   legislatore
nazionale per la formazione del predetto piano. 
    Sotto altro profilo, la violazione dell'art. 28,  secondo  comma,
della legge n. 1150 del 1942 e dell'art. 14-bis, comma 2, della legge
n. 241 del 1990 comporta anche l'invasione della potesta' legislativa
esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali  e  del
paesaggio di cui all'art.  117,  secondo  comma,  lettera  s),  della
Costituzione, nonche' l'abbassamento del  livello  della  tutela  dei
predetti interessi, che determina la  violazione  dell'art.  9  della
Costituzione. Da ultimo, la previsione di un termine di  soli  trenta
giorni  per  l'esame  e  la  deliberazione  di   uno   strumento   di
pianificazione a iniziativa privata risulta manifestamente arbitraria
e irragionevole, comportando  anche  un  serio  pregiudizio  al  buon
andamento dell'amministrazione. Da  cio'  la  violazione  pure  degli
articoli 3 e 97 della Costituzione. 
        3) La disposizione contenuta nell'art. 10, sostituisce l'art.
33 della legge regionale n. 18 del 1983,  concernente  la  variazione
degli strumenti urbanistici. 
    In particolare, il comma 2 elenca i casi  che  non  costituiscono
«varianti urbanistiche»; ipotesi in cui le  modificazioni,  ai  sensi
del  successivo  comma  3,   sono   assunte   dal   comune   mediante
deliberazione consiliare, che viene trasmessa alla Provincia ai  fini
di quanto previsto dal comma 4 (eventuale ricorso al Presidente della
Giunta regionale). Le ipotesi previste, non essendo qualificate  come
«varianti», vengono quindi sottoposte  a  un  iter  procedurale  piu'
snello che viene illegittimamente sottratto, per cio' solo, alla fase
di verifica della conformita' della delibera  consiliare  di  cui  al
comma 3 con il piano paesaggistico, ai sensi dell'art. 145 del Codice
dei beni culturali e del paesaggio. Non puo' ritenersi infatti che la
mera qualificazione di determinate categorie di interventi come  «non
varianti» possa sottrarre questi stessi  all'obbligo  di  conformita'
con il piano paesaggistico, le cui previsioni sono invece  poste  dal
legislatore statale come cogenti e inderogabili da parte degli  altri
strumenti di pianificazione  territoriale,  ad  esso  necessariamente
subordinati. Appare quindi evidente che il legislatore regionale  non
puo' autonomamente individuare intere categorie  di  interventi  che,
anche se  ricadenti  in  ambiti  paesaggisticamente  vincolati,  sono
sottratti all'obbligo di verifica  della  conformita'  rispetto  alla
disciplina  d'uso  definita  nel  piano   paesaggistico.   La   norma
regionale, quindi, nel prevedere  che  determinate  modificazioni  ai
piani, non qualificate come varianti in  forza  di  una  mera  scelta
della Regione, sono assunte con delibere consiliari, senza  prevedere
per queste ultime la necessaria fase di  verifica  della  conformita'
con il piano paesaggistico, ai sensi dell'art.  145  del  Codice  dei
beni culturali e del paesaggio, si pone in contrasto  con  lo  stesso
art. 145 del codice dei beni culturali e del  paesaggio,  costituente
norma interposta rispetto all'art. 117, secondo  comma,  lettera  s),
della Costituzione. E', inoltre, violato l'art. 9 della Costituzione,
in  considerazione   dell'effetto,   derivante   dalla   disposizione
censurata, di determinare l'abbassamento del livello della tutela del
paesaggio, costituente interesse primario e assoluto (Corte cost.  n.
367 del 2007). 
        4)  La   disposizione   contenuta   nell'art.   18,   recante
«disposizioni  per  il   patrimonio   edilizio   pubblico»,   estende
l'applicazione della legge  regionale  n.  49  del  2012  anche  agli
immobili pubblici (comma 1) e prevede che per gli  immobili  pubblici
oggetto di alienazione  sia  «sempre»  consentito  il  passaggio  tra
diverse destinazioni d'uso (comma 2). 
    Ai sensi del testo unico dell'edilizia,  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 380 del 2001, i mutamenti di  destinazione  d'uso
si distinguono  in  quelli  «urbanisticamente  rilevanti»,  ai  sensi
dell'art. 23, per i quali  e  necessario  il  permesso  di  costruire
secondo l'ordinaria procedura  (senza  possibilita'  di  deroga  agli
strumenti urbanistici, come invece previsto dall' art. 14 del decreto
del Presidente della Repubblica n. 380/2001, richiamato dall'art.  5,
del decreto-legge n. 70/2011), e i mutamenti  fra  «destinazioni  fra
loro compatibili o complementari», nei casi di cui all'art. 5,  commi
9 e 13, decreto-legge n.  70/2011,  per  i  quali  e  ammissibile  il
permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici. Da  dette
norme si desumono i principi fondamentali secondo cui i mutamenti  di
destinazione d'uso di regola sono soggetti a permesso di costruire, e
che il titolo non puo' essere rilasciato  in  deroga  agli  strumenti
urbanistici allorche' il mutamento sia urbanisticamente rilevante  ai
sensi dell'art. 23-ter del testo unico. 
    La norma regionale in esame, invece, non  richiarna,  imponendone
il  rispetto,  l'art.  23-ter  del  decreto  del   Presidente   della
Repubblica n. 380/2001 legittimando per gli immobili pubblici oggetto
di alienazione,  sempre  e  comunque  e  anche  a  prescindere  dalle
previsioni degli strumenti urbanistici, ogni  tipo  di  mutamento  di
destinazione d'uso. 
    Cioe' in quanto, richiamando solo l'art. 5, comma 3,  della  l.r.
n. 49/2012 (e, quindi, indirettamente le  disposizioni  dell'art.  5,
decreto-legge  n.  70/2011),  richiama  solo  un'ipotesi  derogatoria
contemplata dalla legislazione statale e non la disciplina a regime. 
    Posto   che   una   simile   operazione   e   assimilabile   alla
classificazione delle categorie di interventi edilizi o  urbanistici,
valgono  in  tat   caso   le   indicazioni   espresse   dalla   Corte
costituzionale  con  riguardo  alla  disciplina   del   Governo   del
territorio, secondo cui «sono principi fondamentali della materia  le
disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perche e  in
conformita' a queste ultime che e disciplinato il regime  dei  titoli
abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonche'  agli
abusi e alle relative sanzioni, anche penali (cosi'  la  sentenza  n.
309 del 2011), sicche' la  definizione  delle  diverse  categorie  di
interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e  n.  139  del
2013)» (sentenza n. 259  del  2014).  Lo  spazio  di  intervento  che
residua al legislatore  regionale  e  quello  di  «esemplificare  gli
interventi  edilizi  che  rientrano  nelle  definizioni  statali»,  a
condizione, pero, che tale  esemplificazione  sia  «coerente  con  le
definizioni contenute nel testo unico dell'edilizia» (sentenza n.  49
del 2016). 
    Pertanto, la norma di cui all'art. 18 della  legge  regionale  in
esame risulta violare l'art. 117, terzo comma della Costituzione  con
riguardo alla materia Governo del territorio, nella parte in cui  non
richiama anche, imponendone il rispetto, l'art.  23-ter  del  decreto
del Presidente della Repubblica n. 380/2001. 
    Con riferimento ai contesti paesaggistici meritevoli  di  tutela,
si rileva che la disciplina dettata in via generale e astratta  dalla
Regione in ordine alla «riqualificazione» degli immobili pubblici  si
sostituisce  sostanzialmente   alla   disciplina   d'uso   dei   beni
paesaggistici che  dovrebbe  essere  dettata  nell'ambito  del  piano
paesaggistico, da approvare previa intesa  con  lo  Stato,  ai  sensi
degli artt. 135, 143 e 145  del  Codice  dei  beni  culturali  e  del
paesaggio. Soltanto a quest'ultimo strumento, elaborato d'intesa  tra
Stato e Regione, spetta  infatti  di  stabilire,  per  ciascuna  area
tutelata, le c.d. prescrizioni d'uso (e cioe' i criteri  di  gestione
del  vincolo,  volti  a  orientare  la  fase  autorizzatoria)  e   di
individuare la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle
vietate, nonche' le condizioni delle eventuali trasformazioni. 
    Le disposizioni regionali contrastano quindi con  la  scelta  del
legislatore statale di rimettere alla  pianificazione  la  disciplina
d'uso dei beni paesaggistici (c.d. vestizione dei  vincoli)  ai  fini
dell'autorizzazione degli interventi, come esplicitata negli am. 135,
143 e 145 del Codice dei beni culturale e del paesaggio. 
    Al riguardo, occorre tenere presente che la parte III del  Codice
dei beni culturali e del paesaggio delinea  un  sistema  organico  di
tutela  paesaggistica,  inserendo  i   tradizionali   strumenti   del
provvedimento  impositivo  del   vincolo   e   dell'   autorizzazione
paesaggistica  nel  quadro  della  pianificazione  paesaggistica  del
territorio, che  deve  essere  elaborata  concordemente  da  Stato  e
Regione. 
    Tale  pianificazione  concordata  prevede,  per   ciascuna   area
tutelata, le c.d. prescrizioni d'uso (e cioe i  criteri  di  gestione
del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria)  e  stabilisce
la tipologia delle trasformazioni compatibili e  di  quelle  vietate,
nonche' le condizioni delle eventuali trasformazioni. 
    Il   legislatore   nazionale,   nell'esercizio   della   potesta'
legislativa esclusiva  in  materia,  ha  assegnato  dunque  al  Piano
paesaggistico una posizione di assoluta preminenza nel contesto della
pianificazione territoriale. Gli articoli 143, comma 9, e 145,  comma
3, del Codice di settore sanciscono infatti l'inderogabilita' delle -
previsioni del predetto strumento da  parte  di  piani,  programmi  e
progetti nazionali o  regionali  di  sviluppo  economico  e  la  loro
cogenza rispetto  agli  strumenti  urbanistici,  nonche'  l'immediata
prevalenza  del  piano  paesaggistico  su  ogni  altro   atto   della
pianificazione territoriale e urbanistica (cfr. Corte  costituzionale
n. 180 del 2008). 
    Si  tratta  di  una  scelta  di  principio  la  cui  validita'  e
importanza  e  gia'  stata   affermata   piu'   volte   dalla   Corte
costituzionale, in occasione dell'impugnazione di leggi regionali che
intendevano mantenere uno spazio decisionale autonomo agli  strumenti
di pianificazione dei comuni e delle Regioni, eludendo la  necessaria
condivisione delle scelte attraverso uno strumento di  pianificazione
sovracomunale, definito d'intesa tra lo Stato e la Regione. La  Corte
ha, infatti, affermato l'esistenza di  un  vero  e  proprio  obbligo,
costituente un principio inderogabile delta legislazione statale,  di
elaborazione congiunta del piano paesaggistico,  con  riferimento  ai
beni vincolati (Corte cost. n.  86  del  2019)  e  ha  rimarcato  che
l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «e  assunta  a
valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore  regionale  in
quanto espressione di un intervento teso a stabilire una  metodologia
uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali
e paesaggistici sull'intero territorio nazionale»  (Corte  cost.,  n.
182 del 2006; cfr. anche la sentenza n. 272 del 2009). 
    Questo profilo di illegittimita' non viene meno per il fatto  che
la disciplina regionale non esclude la necessita di munirsi, per  gli
interventi  relativi  a  beni  tutelati,  anche   dell'autorizzazione
paesaggistica, in quanto la normativa regionale comunque consente,  a
monte e in astratto, possibili ampie trasformazioni degli immobili  e
quindi del contesto tutelato, a scapito della sua  «conservazione»  e
«integrita' in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici. 
    Viene pertanto compromessa la  possibilita'  di  una  valutazione
complessiva  della  trasformazione  del  contesto   tutelato,   quale
dovrebbe  avvenire  nell'ambito  del  piano  paesaggistico,  adottato
previa intesa  con  lo  Stato;  rimettendo  alla  Soprintendenza  una
valutazione caso per caso degli interventi. 
    Non compete invece alla Regione dettare unilateralmente, senza il
necessario coinvolgimento del Ministero per i  beni  e  le  attivita'
culturali, una disciplina  generale  per  la  riqualificazione  degli
immobili pubblici destinata a trovare applicazione anche in  presenza
di vincoli  paesaggistici,  essendo  a  questo  scopo  necessaria  la
definizione  di  un  quadro  di  disciplina  nell'ambito  del   piano
paesaggistico  elaborato  d'intesa   con   lo   Stato   (cfr.   Corte
costituzionale n. 240 del 2020). 
    La censurata disposizione si pone  quindi  in  contrasto  con  la
potesta' legislativa esclusiva dello Stato in materia di  tutela  del
paesaggio, di cui all'art. 117,  secondo  comma,  lettera  s),  della
Costituzione, rispetto al quale costituiscono  norme  interposte  gli
artt. 135, 143 e 145 del Codice dei beni culturali e  del  paesaggio,
nonche, comportando un abbassamento dei livelli di tutela, con l'art.
9 della Costituzione, ai sensi del  quale  il  paesaggio  costituisce
valore primario e assoluto. 
        5) La disposizione contenuta  nell'art.  19,  modificando  la
legge  regionale  n.  49   del   2012,   introduce   la   possibilita
generalizzata per i  comuni,  resa  permanente  con  la  novella,  di
ricorrere alle misure incentivanti su tutto il  territorio  comunale,
senza  che  tali  facolta'  siano  ricondotte  nell'alveo  del  piano
paesaggistico  regionale.  La  disciplina  introdotta   dalla   norma
regionale in esame, operante  senza  limiti  di  tempo  in  relazione
all'intero  territorio  regionale,  laddove  consente  interventi  di
ristrutturazione, ampliamento e di demolizione e/o ricostruzione  con
aumenti di volumetria  anche  sugli  immobili  sottoposti  a  vincolo
paesaggistico, comporta il  sostanziale  svuotamento  della  funzione
propria del piano paesaggistico. 
    La novella introdotta dalla legge regionale avrebbe invece dovuto
prevedere   la   propria   applicazione,   in   relazione   ai   beni
paesaggistici, esclusivamente nei casi e con le modalita' previamente
determinati  dal  piano  paesaggistico  in  corso   di   elaborazione
congiunta con il Ministero per i beni  e  le  attivita'  culturali  o
eventualmente  fissati  d'intesa  con  quest'ultimo  e  destinati   a
confluire nel futuro piano. Cio' allo scopo di evitare che,  in  sede
di  rilascio  delle   autorizzazioni   paesaggistiche,   le   singole
trasformazioni  vengano  valutate  in  modo  parcellizzato,   e   non
nell'ambito della considerazione complessiva  del  contesto  tutelato
specificamente demandata al piano paesaggistico,  secondo  la  scelta
operata al riguardo dal legislatore nazionale.  Conseguentemente,  la
novella introdotta dalla disposizione regionale  in  esame,  volta  a
stabilizzare  le  facolta'  comunali   di   ricorrere   alle   misure
incentivanti e costituzionalmente illegittima laddove non prevede una
specifica clausola in favore del piano paesaggistico e non  subordina
l'applicazione della medesima normativa alla previa  introduzione  di
un'apposita  disciplina  d'uso  dei  beni   paesaggistici   tutelati,
elaborata d'intesa con il Ministero di settore. 
    Per le medesime ragioni gin esposte al  punto  precedente,  anche
questa disposizione si pone  quindi  in  contrasto  con  la  potesta'
legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio,
di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s),  della  Costituzione,
rispetto al quale costituiscono norme interposte  gli  articoli  135,
143 e 145 del Codice dei beni culturali  e  del  paesaggio,  nonche',
comportando un abbassamento dei livelli di tutela, con l'art. 9 della
Costituzione, ai sensi del  quale  il  paesaggio  costituisce  valore
primario e assoluto. 
        6) La disposizione contenuta  nell'art.  23,  attribuisce  ai
comuni dei crateri sismici del 2009 e del 2016 il potere di approvare
varianti agli strumenti urbanistici allo anche in deroga al limite di
dimensionamento  dei  piani,  al  fine  di  ricomprendere   in   aree
edificabili i lotti interessati da strutture e  manufatti  temporanei
realizzati a seguito degli eventi sismici a condizione che gli stessi
siano conformi ai titoli autorizzativi  e/o  comunicazioni,  previsti
dalla normativa emergenziale emanata a seguito degli eventi  sismici.
Viene  cosi  vanificato  il   ruolo   stesso   della   pianificazione
paesaggistica, consentendo  la  trasformazione  indiscriminata  e  in
deroga alle norme  urbanistiche  sul  dimensionamento  dei  piani  di
intere porzioni di territorio sottoposto a tutela. 
    Tale disposizione  si  pone  in  contrasto  con  l'art.  9  della
Costituzione nonche' l'invasione della potesta' legislativa esclusiva
dello Stato in materia di paesaggio, di cui all'art.  117,  comma  2,
lettera s) della Costituzione rispetto al quale  costituiscono  norme
interposte gli articoli 135, 143 e 145 del Codice dei beni  culturali
e del paesaggio. 
    Inoltre,  il  decreto-legge  n  189  del  2016,  convertito   con
modificazioni dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229, consente, in  via
del  tutto  eccezionale  la  collocazione  di  «strutture  temporanee
amovibili» su terreni aventi qualsiasi destinazione,  allo  scopo  di
sopperire alle esigenze abitative delle  popolazioni  danneggiate.  E
tuttavia prescritta inderogabilmente la rimozione delle  strutture  e
il ripristino dello stato dei luoghi alla cessazione dell' emergenza,
ossia una volta ottenuta  l'  agibilita'  dell'immobile  distrutto  o
danneggiato. La previsione regionale si  pone  in  contrasto  con  la
suddetta previsione statale in quanto mira alla stabilizzazione delle
strutture che, in base alla  norma  eccezionale  statale,  dovrebbero
avere carattere  del  tutto  provvisorio.  Sotto  altro  profilo,  la
disposizione censurata, laddove consente di  derogare  ai  limiti  di
dimensionamento, si pone anche in  aperta  violazione  del  principio
fondamentale secondo il quale le norme  di  piano  che  prevedono  la
trasformazione  del  territorio  per  la   realizzazione   di   nuovi
insediamenti, devono essere basate su puntuali calcoli di  fabbisogno
abitativo. Tale principio, che trova positiva  emersione  all'art.  3
della legge 18 aprile 1962, n. 127, e' in realta' sotteso  all'intera
disciplina normativa in materia di Governo del territorio e  presenta
una portata di carattere generale, imponendo  in  via  generale  alle
Regioni di  ancorare  il  dimensionamento  delle  nuove  edificazioni
previste dai piani  urbanistici  al  reale  fabbisogno  abitativo  da
soddisfare. Inoltre, la deroga ai  principi  introdotta  dalla  norma
regionale, non trova alcuna giustificazione in ragioni  di  interesse
pubblico. Infatti, l'art. 4-quater del decreto-legge n. 189 del  2016
consente  il  mantenimento  delle  strutture   temporanee   amovibili
realizzate per l'emergenza sismica fino  all'agibilita  dell'immobile
distrutto  o  danneggiato,  assicurando  quindi  pena   tutela   alle
necessita di alloggio delle popolazioni danneggiate. La  disposizione
regionale, consentendo ai comuni di rendere edificabili  le  aree  su
cui sorgono le predette  strutture  precarie  e  amovibili,  permette
invece di  sostituire  tali  manufatti  con  edifici  strutturalmente
stabili e destinati a permanere sul territorio, determinandone  cosi'
la trasformazione  irreversibile,  nonostante  il  venir  meno  della
situazione di emergenza alloggiativa, ponendosi quindi  in  contrasto
con l'art. 117, comma 3 della Costituzione, in  considerazione  della
violazione del principio  fondamentale  in  materia  di  Governo  del
territorio di obbligatorio  dimensionamento  dei  piani  in  funzione
delle esigenze insediative, nonche' del principio fondamentale  posto
dall'art. 4-ter del decreto-legge n. 189 del 2016. 
        7)  La   disposizione   contenuta   nell'art.   25,   prevede
l'installazione su aree private di manufatti leggeri, e consente  una
deroga temporanea per un periodo  non  superiore  a  due  anni,  alla
disciplina prevista dal testo unico sull'edilizia. 
    Tale previsione viola l'art. 117, comma 3 della  Costituzione  in
materia di «governo del territorio», in quanto gli interventi in essa
individuati, seppure omogenei rispetto a quelli  che  possono  essere
eseguiti senza titolo abilitativo ai  sensi  dell'art.  6,  comma  1,
lettera e-bis), del decreto del Presidente della  Repubblica  n.  380
del 2001, si discostano dalla ratio sottesa  alla  normativa  statale
che includerebbe tra le attivita «libere» soltanto quelle a carattere
temporaneo. E  il  carattere  cogente  della  temporaneita'  al  fine
dell'individuazione delle opere in esame, e evidenziato dalla duplice
circostanza che la norma ne  prevede  la  necessaria  rimozione  alla
cessazione dell'esigenza e, comunque, «entro un termine non superiore
a  centottanta  giorni  comprensivo  dei  tempi  di  allestimento   e
smontaggio del  manufatto».  L'art.  6,  comma  6,  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.  380,  prevede  che  le
regioni  a  statuto  ordinario  possono   estendere   in   disciplina
dell'edilizia libera a «interventi edilizi  ulteriori»  (lettera  a),
nonche' disciplinare «le modalita' di  effettuazione  dei  controlli»
(lettera b). Nel definire i limiti del potere  cosi'  assegnato  alle
regioni, la Corte costituzionale  ha  escluso  «che  la  disposizione
appena citata permetta al  legislatore  regionale  di  sovvertire  le
"definizioni" di "nuova costruzione" recate dall'art. 3  del  decreto
del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 (Sentenza n. 171  del
2012). L'attivita' demandata alla regione, si  inserisce  pur  sempre
nell'ambito  derogatorio  definito  dall'  art.  6  del  decreto  del
Presidente   della   Repubblica   n.   380   del   2001,   attraverso
l'enucleazione di  interventi  tipici  da  sottrarre  a  permesso  di
costruire e segnalazione certificata di inizio di  attivita.  Non  e'
percio' pensabile che il  legislatore  statale  abbia  reso  cedevole
l'intera disciplina dei titoli  edilizi,  spogliandosi  del  compito,
proprio del legislatore dei principi fondamentali della  materia,  di
determinare  quali  trasformazioni   del   territorio   siano   cosi'
significative, da soggiacere comunque a  permesso  di  costruire.  Lo
spazio attribuito alla legge  regionale  si  deve  quindi  sviluppare
secondo  scelte  coerenti  con   le   ragioni   giustificatrici   che
sorreggono, secondo le previsioni dell'art. 6, comma  6,  lettera  a)
del decreto del Presidente della  Repubblica  n.  380  del  2001,  le
specifiche  ipotesi  di  sottrazione  al  titolo  abilitativo  (Corte
costituzionale sentenza n. 139 del 2013). 
    Il limite assegnato al legislatore regionale dall'art.  6,  comma
6, lettera a) del decreto del Presidente della Repubblica n. 380  del
2001 sta, dunque, nella possibilita' di estendere i casi di attivita'
edilizia libera ad ipotesi non integralmente  nuove  ma  «ulteriori»,
ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui  al
comma 1, art. 6 (Corte costituzionale Sentenza n. 282 del 2016).